“Tornatore a Tornatore”: la sfida della mia vita!
Abbiamo incontrato Giuseppe Tornatore: lui, l’uomo, il regista; uno spudorato raccontatore di emozioni, come ama definirsi. Avremmo voluto chiedergli del suo ultimo film, magari di quello che sta pensando…, continua a giocare sull’intensificazione emotiva! La partenza, un giorno, da Bagheria e via per le strade del Mondo, varcando oceani, conquistando platee; un viaggio persistente il suo. Passa ora per l’ est europeo: la sua meta è Leningrado. Adducendosi una svolta con “Nuovo cinema Paradiso” avanza rimanendo, però, saldo alla tradizione e alla memoria, alle forme, alla nettezza di percezione del mondo e all’ importante testimonianza del cinema del dopoguerra.
Partendo da Pirandello, passando per Eduardo, la sua carriera cinematografica comincia dal festival di Salerno con un documentario sulle “minoranze etniche in Sicilia”. Un percorso difficile, quello della contro tradizione, per far emergere anche la propria voce?
Mi sento sempre inadeguato quando mi si chiede sulla consapevolezza del percorso compiuto! Da ragazzo le uniche cose che riuscivo a realizzare erano i documentari, temi di tradizioni popolari. Era ciò che potevo affrontare coi pochi mezzi a disposizione; non c’ era una scelta ideologica. Tutto quello che ho fatto l’ ho sempre fatto così! Credo che i primi passi miei abbiano rappresentato un puro desiderio di una alfabetizzazione cinematografica.
Ma nel suo linguaggio quanto ha contribuito la tradizione del cinema italiano?
Sono un autodidatta del cinema! Non ho frequentato scuole, come la maggior parte dei registi italiani. Crede che abbiamo una tradizione? Una didattica del cinema vera e propria, purtroppo, da noi è inesistente; ho fatto un po’ da solo. Tutto ciò che ho realizzato sono solo le tappe di
un’ auto formazione, della voglia di saperne di più. Ancora, oggi, sento che devo imparare molto.
Pirandello, Verga, Sciascia e Brancati: una impronta indelebile al suo stile cinematografico. Letteratura quale opportunità per raccontare o necessità di attingere alle proprie radici per documentare lo spaccato di una Italia che sostanzialmente aveva bisogno della Storia verace del suo Sud?
Lei si riferisce a un programma per la televisione! Se le dicessi che fu un programma assegnatomi dalla Rai non ci crederebbe. Non lo vissi come una scelta della mia carriera, ma mi piacque tantissimo. Quella committenza mi convinse che era possibile fare bene anche le cose che non nascono nella propria testa. Furono delle puntate molto attraenti! Questi scrittori avevano in comune, per me, qualcosa di importante: il rapporto col cinema in atteggiamenti completamente diversi. Mi attraeva il loro vissuto, quello che era accaduto tra le loro opere e i registi del cinema. Lo scetticismo di Verga: lui riteneva che il cinema fosse soltanto un mezzo per guadagnare un po’ di soldi. Fondamentalmente non si fidava, temeva “l’ ingigantimento” del quadro. L’ atteggiamento di Pirandello era già più profondo…Egli si interrogava sul cinema mentre il cinema si interessava delle sue opere. Cercava di capire cosa avesse di nuovo questo mezzo, le sue fasi alterne. In quella serie credo di avere sintetizzato quanto si poteva.
Il suo più che un ponte tra Sicilia e la penisola è stato un andare incontro alla Campania. Lo ha fatto per quanto queste terre hanno in comune?
Non glie lo so dire… Non rimuginavo di dover stabilire un’ accostamento alla Campania, né l’ ho mai pensato come un sogno. Posso dirle che molte cose mi hanno portato a questa regione, fino ad arrivare, talvolta, ad amare Napoli più della mia stessa città natale.
Il suo è sempre un partire e ritornare: un richiamo vitale a tratti nostalgico della Sicilia. A tal proposito quale l’epoca e quella mentalità che i critici non colsero in “Malèna” ?
Si, nei miei film il viaggio è uno tra i temi più evidenziati. Effettivamente, l’andar via e il ritornare sono delle costanti in molte delle mie storie. Non soltanto Malèna, ma molte cose nei miei film non sono state apprezzate dai critici. Essi hanno trovato ridondanti tutti i miei film, compreso “Nuovo Cinema Paradiso”! Credo, piuttosto, che non abbiano saputo cogliere la voglia di leggerezza. In fondo Malèna è un film su un sentimento semplicissimo: quello del primo innamoramento, un momento di disorientamento totale! Malèna è stato il piacere di raccontare una storia semplice, di raccontare un elemento universale nella vita degli uomini, ma pure delle donne in un contesto storicamente ben chiaro.
Ritratti di mafia e di camorra i suoi. Quanto di quelle storie, fotografie di vita del nostro tempo confluirono in “Nuovo cinema Paradiso”?
Lei probabilmente si riferisce al “camorrista”. Direi che fu un film di inizio; la possibilità di riuscire a far convivere riflessione su forti temi di attualità e sequenze spettacolari. Non è stato un film tanto esile, come in genere si pensa debbano essere le opere di esordio. I miei ritratti come quei tanti fatti di natura umana, sociale e politica che possono passare per le tavole di un palcoscenico o ripresi dal cinema. …Direi forse il limite tra l’esterno e l’ intimo della verità.
La rappresentazione di “Novecento” è stata solo la bramosia di riportare il limite della possibilità umana in una insolita sfida pianistica o una arguzia per consacrare comunque un secolo difficile quanto importante della nostra storia moderna?
Probabilmente il non partire e il non tornare! Novecento non parte mai e non ritorna mai o parte e torna sempre: non è forse questa la sfida al limite della possibilità umana?
Cosa oggi maggiormente persegue, forme esasperate di una sua personalissima dialettica o ragioni profonde della sua visione reale?
Eh, queste sono parole troppo importanti… Faccio un film perché è quello che mi piacerebbe vedere. Siccome nessun altro lo fa allora lo faccio io; per questo faccio i film! Non inseguo
nient’ altro che questo, li faccio per me stesso. E’ semplice…è molto semplice.